Annientamento: la mutevole perdita della coscienza

Annientamento

Annientamento: la mutevole perdita della coscienza

Cosa è vero, cosa falso?  Quello di Alex Garland è un mondo che corre costantemente su due binari paralleli, pronti a intersecarsi con conseguenze tragiche, se non apocalittiche. Che si tratti di un romanzo, una sceneggiatura, o una regia cinematografica, vi è una costante dicotomia a occupare l’universo diegetico nato dalla mente dell’autore britannico: da una parte un’umanità che tenta di elevarsi al ruolo di divinità; dall’altra una controparte naturale, o tecnologica, decisa a rivendicare il proprio dominio sull’uomo. Se in Ex-Machina l’uomo investito da una missione divina si pone come obiettivo la creazione di un sostituto alla propria specie (lo stesso obiettivo è stato indagato da Kazuo Ischiguro nel suo romanzo Non Lasciarmi, portato sullo schermo da Mark Romanek da una sceneggiatura dello stesso Garland) Annientamento vive di retaggi lontani, ma comunque influenti, di The Beach. Come nel romanzo di Garland (poi divenuto film grazie a Danny Boyle) l’uomo si ritrova a scontrarsi con una natura prima complice, poi del tutto ostile. È una natura che, in una maniera quasi apocalittica, muta a sua immagine e somiglianza tutto ciò che ritrova incluso nel suo raggio d’azione. Non più un Eden paradisiaco, piuttosto un infernale laboratorio sperimentale di mutazione genetica. A dare il là agli eventi in Annientamento (disponibile ora su Netflix) è un meteorite che, colpendo la terra, genera un’area dagli strani fenomeni. Dopo spedizioni fallite dalle quali solo il sergente Kane (un sempre fenomenale Oscar Isaac) è riuscito a fare ritorno, una squadra di cinque scienziate – compresa la biologa Lena, moglie di Kane (Natalie Portman) – si addentrano nella zona mettendo a rischio il proprio già precario destino.

Quest scientifica e filosofica in un regno dove le leggi della natura sono sovvertite, Annientamento (tratto dal romanzo di Jeff VanderMeer) inizia esattamente dove si conclude Ex Machina: la messa in scena di un mondo – l’Area X – dall’ambiguità perturbante di un universo iper-umano in atto di nascere. Sulla scia di una rielaborazione di modelli fantascientifici passati, mescolati a temi di attualità, sono molte le influenze cinematografiche che animano il film di Garland, da Stalker al carpenteriano La cosa (film apertamente citato a inizio opera) passando per il cinema di Cronenberg, Apocalypse Now, L’invasione degli Ultracorpi e, ovviamente, Alien. Eppure in esso si ritrova anche molto di Garland.  Come in Ex-Machina, fa qui il suo ritorno l’interrogatorio giocato su ininterrotti campi e controcampi. Costante l’impiego della superficie trasparente di vetri, bicchieri, finestre, simboli del doppio e del riflesso anomalo e imperfetto di esseri umani destinati alla perdita di memoria e della propria personalità. In un mondo dove tutto appare ciò che non è, i colori dell’arcobaleno scintillanti e cangianti del Bagliore sono sfumature di un canto di sirene conducente al sonno eterno; tonalità che attirano e conducono tra le braccia nefaste di una morte ammantata di abiti sgargianti. La bellezza dei fiori e delle creature così sublimemente attrattive è solo apparente. La luce acceca, i colori mutano e la personalità svanisce.

Passo dopo passo, sguardo dopo sguardo, i giorni passano e il mondo interiore lascia spazio a un buco nero, perché il vero fulcro di Annientamento non è l’incontro con una specie aliena e minacciosa, quanto la perdita della protagonista all’interno del proprio labirinto interiore. All’interno dell’Area X i campi lunghi e le inquadrature immortalanti le donne come un gruppo coeso si fanno sempre più radi. E così una semplice spedizione si tramuta in una lotta alla sopravvivenza. Se il DNA che si rinfrange all’interno del Bagliore muta tutto ciò che attraversa il proprio percorso, così la struttura claustrofobica e prigioniera di quest’area si duplica in tante sotto-prigioni: sono tende, case abbandonate, strutture fatiscenti pronte a trasformarsi in ambienti di morte. Ciò che si presenta come un possibile scenario di salvezza e nascondiglio, getta le proprie mentite spoglie per rivelarsi – proprio come in 28 giorni dopo – per ciò che è veramente: trappola mortale, dimora di mostri e ominidi alienanti. Alla base della fantascienza di Alex Garland c’è sempre stato, dopotutto, un senso isolamento, inteso sia come ricerca di un rifugio sicuro, che di luogo di reclusione ed estraniamento. Dalla comunità di non infetti in 28 giorni dopo, alla nave spaziale di Sunshine, fino al laboratorio di Ex Machina, passando per il college di Non lasciarmi, lo sceneggiatore britannico ha sfruttato questo spunto narrativo per costruire un leitmotiv dietro cui nascondere un universo cangiante, in perpetuo cambiamento. Questo vale soprattutto per Annientamento. Le protagoniste che si imbarcano in questa Odissea mortale in nome della scienza non hanno nulla da perdere, se non un confronto con loro stesse. Si sente lontano l’eco dell’Ulisse dantesco in questa roulette russa dove a essere messo in palio è un passato da dimenticare. «Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza» chiosa l’eroe greco, e così ogni personaggio che entra nell’Area X accetta di intraprendere il sentiero dell’autodistruzione perché non ha più niente da perdere.


Apoteosi del cinema post-moderno dove realtà e finzione si mescolano violentemente,  Annientamento è un film di stupore e contemplazione. È un tipo di fantascienza sui generis. Messa da parte la logica, per apprezzarlo ci si deve lasciare trascinare dal suo ermetismo stilistico e dalla sua incredibile bellezza estetica.

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